Gli Uomini Volanti: separarsi dai propri Cari senza un ultimo saluto

di Liliana Cocumelli

 

«Dov’è il nonno?»

«Non c’è più.»

«E dove è andato?»

«Non è più qui, è volato via. In Cielo. Ci guarderà da lassù.»

 

Forse mai come in questi giorni del xxi secolo anche la mente dei Grandi, degli Adulti, si è percepita nella stessa inerme difficoltà di un bambino piccolo a fare i conti con l’improvvisa scomparsa dei propri Cari. Può capitare che un bambino, a seconda dell’età e dei fattori contestuali, faccia ricorso alla sua fantasia per aiutarsi a capire meglio qualcosa di troppo complesso e doloroso, arrivando per esempio anche a pensare: “Devono essergli spuntate le ali al nonno… nella notte, e così il nonno ha scoperto di avere dei Superpoteri, e poter volare in cielo come Superman”.

Di questa infantile logica fantasiosa gli Adulti se ne sono spogliati lasciando entrare “a piccole dosi” nella loro piena consapevolezza, se tutto è andato bene nella crescita, il mondo reale così com’è, con tutto il brutto e il bello del piano di realtà umana, incluso il concetto della morte.  Alcuni adulti hanno sostituito l’antica stampella infantile della fantasia con la fede. Maggiore è l’angoscia, maggiore è il bisogno di controllarla. Queste brevi righe sono a premessa di uno spunto di riflessione sul post-emergenza a cui vorrei invitare con il presente scritto.

Le lunghe file dei camion dell’Esercito carichi di salme, mostrate dai media, saranno impresse nelle menti di tutti come l’ultima immagine di tanti uomini volati via, senza l’ultimo saluto. La pelle, potente organo di senso, non ha potuto preparare la mente dei familiari a quella assurda separazione: nessun familiare ha potuto stringere la mano al proprio Caro. Vetro, plastica, materiali sintetici al posto del pelle-a-pelle, mano-nella-mano, abbraccio-abbraccio. Spesso anche la notizia della perdita del proprio Caro è stata data da lontano ai familiari in quarantena. Sembra opportuno chiederci ora se sarà questa la ferita psichica più profonda e comune a tantissime persone, a cui un adeguato percorso psicoterapeutico potrà offrire il giusto balsamo cicatrizzante. Una ferita per omissione, da mancato saluto, da vietate esequie. Potrebbe essere già utile interrogarci su questo tema, come sull’individuazione dei maggiori aspetti di questa drammatica vicenda storico-collettiva che risulteranno, per tutti, i più indigeribili per la psiche. A guida di un primo passo verso questa riflessione potremmo scegliere il canale visivo-percettivo: lo stesso che in questi giorni è stato così colpito da massicce tracce mnestiche del Reale-Brutto, lo stesso canale che ci ha dovuto più supportare per la pesante penalizzazione di quello tattile e cutaneo (non potendo usare il termine inesistente di “pellile”). Ho cercato una raffigurazione che potesse essere già un primo abbozzo di forma del probabile informe psico-emotivo. Non poteva che essere una rappresentazione visiva del Bello e del Brutto, come un Pittorico pregno di simbolismo, eseguito da chi avesse già vissuto qualcosa di simile, raffigurandone drammaticamente l’umana solitudine di fronte a un senso di apocalittica catastrofe storica. Mi sono tornati subito nitidi in mente i dipinti chagalliani. Nessun pittore più di Chagall sembra essere adatto a ridare corpo ai tanti corpi volati via e rimasti incastrati nel limbo di una comunicazione interrotta. Con il suo Luftmensch[1], l’uomo volante che compare nei suoi tanti dipinti a sovvertire ogni ordine logico di realtà terrena, Chagall trasmette chiaro il concetto della “sospensione”. Questa icona forgiata da Chagall a simbolo antesignano del mito dell’Ebreo errante e del suo sentirsi perseguitato, mi sembra prestarsi bene a rappresentare almeno tre odierni vissuti di sospensione: la sospensione nello smarrimento di tutti gli uomini moderni scaraventati nel caos, in una dimensione di estrema minacciosità per la vita, e che si sono sentiti dei Luftmenschen volteggianti in aria, privati così all’improvviso della solidità delle loro moderne certezze; la sospensione dei lutti, con i legami affettivi recisi ma inelaborabili con il dramma di un Addio mancato, per via del divieto dei funerali, quell’ultimo saluto con cui sarebbe stata avviata la pensabilità separativa; e infine la sospensione dell’ordine temporale, supporto indispensabile dell’ordine del mondo, causata dal distacco da ogni abituale routine quotidiana. In termini psicoanalitici tutto ciò semplicemente potrebbe tradursi nel post-emergenza in una collettiva difficoltà umana a tornare a sentirsi reali, a ridiscendere dallo stato sospensivo per ritrovare un suolo in cui affondare nuovamente le radici. Con questo intendo riferirmi anche al tornare a sentire i conflitti interiori, così che ognuno scongelandosi dalla dimensione sospesa possa tornare a una sorta di moto interno pendolare, in cui sentire di essere tornato a esistere senza più il bisogno di stare in allerta per un pericolo passato. Né di continuare a cercare e ricercare se stesso, neppure nell’oggetto non-Sé – il proprio Caro –  ormai scomparso. Questo sarà solo uno dei probabili focus terapeutici del post-emergenza e sarà un lavoro in cui gli insegnamenti dello psicoanalista Winnicott ci torneranno particolarmente utili. In particolare vorrei ricordare la raffinatezza con cui Winnicott, in poche righe, anch’esse con un rimando a un noto pittore, tentò di chiarire il concetto dell’esperienza del sentirsi reale. In una sua lettera a Victor Smirnoff del 1958 attorno alle difficoltà di traduzione in francese del suo saggio Oggetti transazionali e fenomeni transazionali, infatti, egli precisava: «»«Implico che la reale esperienza non scaturisce direttamente dalla realtà psichica dell’individuo, né dai rapporti esterni dell’individuo. Questo può riuscire sorprendente, ma lei può forse capire ciò che voglio dire, se pensa a ciò che esperiva Van Gogh, vale a dire di sentirsi reale nel momento in cui dipingeva uno dei suoi quadri, ma irreale nei suoi rapporti con il mondo esterno e nella sua vita privata». Ritrovare il binario della propria vitalità creativa, forse è questo che ci servirà più che mai nel post-emergenza, un aiuto per ricostruire o ritrovare le rotaie del sentirsi vivi dentro.

Concludo con un ultimo rimando alla pittura di Chagall e al suo potere artistico di temperare ogni clima apocalittico con presenze simboliche che alludono a prospettive di salvezza: come nella sua Chute de L’Ange (1923-1947) la speranza è accesa dalla figura di una madre che protegge il suo bambino in braccio, ogni percorso psicoterapeutico futuro potrà essere un viaggio per incontrare qualcuno pronto a riprendere il sacco-mondo in spalla, il cammino verso un ipotetico altrove: verso un Fuori-dal-Trauma connesso ad un’ipotetica prospettiva di ricominciamento.

 

Bibliografia

Massenzio M. (2018), L’Ebreo errante di Chagall. Editori Riuniti, Roma

Winnicott D.W. (1988). Lettere. Raffaello Cortina Editore, Milano. Pag. 189

Sitografia

www.emanuelegiannelli.it

[1] L’immagine del Luftmensch, che dimora e si muove nell’aria privo di un proprio suolo in cui potersi radicare deriva dalla letteratura yiddish classica ad opera di Mendele e Scholem-Aleichem.

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